Il Fascino del Traghettamento sul Fiume Simeto nel Passato
Nel corso dei periodi di magra, con il regime torrentizio del fiume Simeto, era relativamente semplice individuare guadi o passaggi sicuri. Tuttavia, durante le piene, attraversare il fiume diventava rischioso e si correva il pericolo di essere trascinati via dalla corrente. Con l’espansione dell’agricoltura e del commercio durante l’era araba, furono introdotte delle soluzioni innovative: zattere o barche chiamate “giarrette” vennero posizionate alle principali vie di transito sia da una sponda all’altra del fiume, consentendo così il trasporto di persone, animali e merci. Queste barche venivano ancorate alle due sponde del fiume mediante robuste corde chiamate “libani”, che fungevano da guida e sostegno per superare le turbolenze delle acque.
Sulla sponda orientale del fiume, si trovava un’area appositamente attrezzata con un ampio pagliaio, dove erano conservate le imbarcazioni insieme ai relativi attrezzi: tronchi, tavole, corde e pece per la manutenzione delle barche. Queste imbarcazioni erano di proprietà del sovrano o dei nobili che le avevano ricevute come feudo, e venivano gestite attraverso il sistema di gabella per periodi che variavano da 3 a 6 anni. Il gabellato, ovvero il feudatario o uno dei suoi vassalli, pagava un canone annuo in denaro o in natura al titolare del feudo, e a sua volta riscuoteva tariffe speciali, chiamate “iura” o diritti di passaggio, dai trasportatori, che includevano contadini, pastori e altri.
Tra le giarrette più famose ve ne erano tre: quella di Adornò o di Mandarano, quella di Paternò o della Poira e quella di Catania, situata non lontano dalla foce del Simeto.
La Giarretta di Adornò è documentata in una serie di lettere del conte Francesco Moncada datate 27 agosto 1564. In uno di questi contratti viene stabilito che i proventi derivanti dall’attività della barca dovevano essere devoluti annualmente ai procuratori della Chiesa Matrice per essere utilizzati per l’acquisto di cera, olio, e altri beni necessari. Dal 1564 al 1636, la Chiesa Matrice esercitò il diritto di gabella sulla barca, riscuotendo un canone annuo di 10 onze dai gabellati. Questi ultimi, per le loro prestazioni, richiedevano i seguenti diritti: dai contadini che lavoravano le masserie e i campi, quattro misure di grano per ogni giornata di aratura; dai pastori, un cantaro di formaggio oltre a capretti, pecorelle e formaggi freschi.
Questo pesante onere gravò per molti anni, suscitando spesso lamentele da parte degli agricoltori e dei
pastori che non vedevano di buon occhio l’obbligo di pagare tali oneri così gravosi. A loro volta, i procuratori della Chiesa Matrice lamentavano il modesto introito derivante dall’attività della barca, che non era sufficiente a coprire le spese di manutenzione e riparazione. Pertanto, attraverso un atto datato 27 maggio 1718, concessero a un barone il diritto di gestire la barca sul fiume secondo le stesse modalità della Chiesa Matrice, tutto ciò a fronte di un canone annuo di 10 onze, per il pagamento del quale il barone mise ipoteca su tutti i suoi beni. La responsabilità per la protezione e la ricostruzione della barca in caso di naufragio ricadeva completamente sul concessionario.